
Una giornata di maggio la polizia porta alla Maison de la Joie la piccola K, enfant errante, cioè una bambina ritrovata da sola per strada. Nell’impossibilità di ritrovare i genitori o qualcuno dei parenti che se ne occupi, questi bambini – di prassi – vengono affidati agli orfanotrofi in attesa del ritrovamento della famiglia.
Ebbene, K, dieci o undici anni, slanciata e sorridente, rimane con noi a lungo: s’ipotizza che non sia mai andata a scuola poiché non è in grado di scrivere il suo nome ma purtroppo l’anno scolastico sta per finire e non accettano più la sua iscrizione. La vita alla Maison procede senza particolari scossoni, K fa delle amicizie, capisce i ritmi di questa casa un po’ particolare, segue tutto con i suoi occhi attenti e diventa sempre più parte del gruppo.
Fino a metà agosto. Visto l’arrivo di un gruppo di nove bambini, si fanno test e vaccinazioni per tutti. E qui la storia cambia. Il suo pre-test segnala una positività all’HIV, positività che viene confermata anche dal successivo test ufficiale.
Questo punto di svolta, purtroppo, apre orizzonti sconosciuti per noi e per lei. Contattiamo l’assistente sociale di Ouidah che, nel frattempo, ha rintracciato la famiglia.
I genitori sono morti – possiamo adesso ipotizzare con una certa probabilità che siano morti di HIV – e il resto della famiglia, dopo averla abbandonata, si rifiuta categoricamente di riprenderla, forse proprio perché a conoscenza della sieropositività di K.
Noi ci troviamo in difficoltà: fino ad adesso non abbiamo mai incontrato queste specifiche difficoltà lungo il nostro cammino, non abbiamo le competenze per accompagnare la bimba nel suo percorso terapeutico e garantire la sicurezza di tutti gli abitanti della Maison, K compresa.
L’assistente sociale ci parla di una struttura, l’unica in tutto il Benin, che accoglie bambini sieropositivi: il Centro Optima. Agli incontri successivi, l’assistente sociale ci riporta che il Centro ha rifiutato di prendere in carico la bambina non per la mancanza di posti, ma poiché attraversa un periodo di scarsità di fondi.
Davanti a questa notizia, però, non ci rassegniamo ad un destino che sembra già scritto: la famiglia verrebbe convocata dal Giudice dei Minori e “costretta” a prendersi carico della bimba, sotto la minaccia del carcere. Le condizioni in cui è arrivata la bimba, in particolare il fatto che sia completamente analfabeta a undici anni, ci fanno immaginare un passato difficile, di difficoltà economiche e sociali, e non ci lasciano tranquilli sull’esito di questo ipotetico percorso.
Cominciamo allora a pressare l’assistente sociale per avere il numero di telefono o l’indirizzo del Centro: pensiamo che se il problema sono realmente i soldi, possiamo, si deve, trovare una soluzione. Dopo due settimane in cui non riceviamo alcuna notizia dall’assistente sociale, prendiamo noi l’iniziativa.
Una ricerca sul web ci porta a conoscenza di un ospedale a Cotonou che “collabora con l’ONG OPTIMA” – informazione riportata su uno striminzito articolo che racconta la visita di una delegazione diplomatica a questo ospedale. Ci aggrappiamo a questo appiglio e ci rechiamo nell’ospedale dove ci forniscono due numeri di telefono e un’informazione importante: il Centro non accoglie bambine come la nostra poiché lavora su progetti a breve termine (3 mesi) per rimettere in sesto bambini già in cura che attraversano particolari difficoltà, familiari o di salute.
È una doccia fredda. Quella che era la nostra unica pista è diventata impraticabile. Mentre nelle nostre teste elaboriamo precari percorsi alternativi, decidiamo comunque di chiamare i numeri di telefono che ci hanno dato: non si sa mai.
Rispondono. Spieghiamo la storia di K e fissiamo un randez-vous a Cotonou a distanza di un paio di giorni. Nel frattempo la scuola sta per iniziare, K riceve lo zaino, la divisa, il materiale scolastico come tutti gli altri.
Ci rechiamo a Cotonou per il randez-vous, in uno stato d’animo che oscilla tra la rassegnazione e la volontà di giocarci fino in fondo l’ultima speranza. Incontriamo il direttore del Centro Optima che ascolta attento, un’altra volta, la nostra storia.
E quello che pensavamo essere il muro contro cui finisce un vicolo cieco si rivela essere l’incrocio in cui questa storia può prendere finalmente la strada giusta.
Il direttore si mostra sensibile alla storia di K, ci racconta la storia del Centro: nato come centro di transizione per bambini e famiglie in difficoltà con la malattia e con la terapia, piano piano si trasforma poiché incontra sempre di più sulla sua strada bambini che non possono essere riaffidati alla famiglia, perché la famiglia non riesce a seguirne le cure, o perché i genitori sono morti o perché si rifiutano categoricamente di riprendere il bambino. Ci illustra i risultati ottenuti dal Centro Optima, ci racconta delle loro competenze nella lotta prettamente biologica alla malattia e ci racconta le storie a lieto fine dei bambini che hanno abitato la loro casa.
Ci racconta però che a causa delle difficoltà economiche non accolgono nuovi bambini oltre a quelli che già abitano il loro centro, ma la storia di K l’ha toccato e la nostra determinazione l’ha fatto riflettere. Avendo entrambi a cuore il destino di questa piccola, nel caso in cui fosse accolta presso di loro, ci diciamo disponibili a contribuire – per quanto ci è possibile – alle finanze del Centro Optima.
E così la storia sembra aver preso la strada giusta: una strada in salita – nel giro di cinque giorni siamo stati tre volte a Cotonou per visite ed esami – ma che lascia intravedere un pianoro in cima a queste fatiche. La bimba inizia gli esami e il trattamento, il numero di medicine da assumere è considerevole e già cominciano a mostrarsi i primi effetti collaterali.
Il Centro ci contatta e ci annuncia ufficialmente che possono accogliere la bimba.
Sia per K che per noi la strada insieme e in salita non è finita, noi la accompagneremo nell’ingresso del nuovo Centro e da lì in avanti le faremo regolarmente visita: le porteremo qualche regalo di tanto in tanto, magari le forniremo il materiale scolastico o vestiti tradizionali con cui uscire ed andare alle feste o a messa.
La storia continua....
Una grande storia, due piccoli gesti.
Martedì scorso abbiamo ufficialmente portato K al Centro che l’accoglierà e la seguirà per tutto il tempo necessario alla stabilizzazione della sua condizione di salute e al raggiungimento di un elevato livello di consapevolezza rispetto alla sua malattia. Contemporaneamente K sarà accompagnata in un ulteriore sforzo per recuperare velocemente almeno una parte di tutti gli anni di scuola persi.
La storia di questa giornata, però, passa attraverso piccoli gesti che aprono uno squarcio nel pesante velo che, in questa cultura, copre ogni forma di emotività, negli adulti come nei bambini.
Gli orecchini
Tradizionalmente, i buchi per gli orecchini sono una delle prime cose che i genitori fanno alla propria bimba e, da lì in avanti, sono il segnale universale per distinguere maschi e femmine laddove i volti di bambini e bambine si assomigliano. Ma quando K ci viene portata dalla polizia è senza orecchini, tanto che capita alcune volte che lo staff della Maison la confonda per maschio.
Ecco, la mattina di martedì tutti i bambini sono già usciti per la scuola quando stiamo anche noi per uscire in direzione Cotonou. K è di nuovo senza orecchini, forse persi o forse impacchettati assieme a tutto il resto della sua roba.
Maman, con un’attenzione da vera e propria mamma, se ne accorge e chiede a Debora, l’unica ragazza rimasta in casa poiché quella mattina al suo College non aveva corsi, di regalare i suoi a K. È un giorno importante e K non può uscire senza. Maman provvederà a donarne successivamente un altro paio a Debora.
E così l’arrivederci alla Maison passa anche e soprattutto da un paio di orecchini, regalati come a segnare l’importanza di quel momento e di quel giorno. Un ricordo di “casa” che K porterà a lungo con sé, fino poterci fare poi finalmente ritorno.
- La barbie
Fortunatamente qualcuno dall'Italia ha deciso di regalare una Barbie, con tanto di lunghi capelli biondi e pettine, a ciascuna delle bambine della Maison. Decidiamo di anticipare il regalo per K, glielo consegniamo e finisce dritto dritto in cima al sacco coi suoi vestiti e i suoi effetti personali (rabboccato con altri vestiti appena arrivati), sacco che si porterà dietro nella sua prossima avventura.
Dopo alcune visite arriviamo finalmente al Centro, il direttore non è ancora là e aspettiamo insieme a Tonton Gerard: si fanno le prime chiacchiere, coinvolgiamo anche uno degli altri ragazzi del Centro e, sempre nell'attesa, smontiamo il sacco dei vestiti.
Salta fuori la Barbie, con il suo pettine, e immediatamente le mani di K l’afferrano, la muovono e cominciano a giocare con lei. Il suo sguardo si abbassa, si rifugia timido sulla Barbie per scappare dalle domande di Tonton Gerard. Continua a pettinarla, sfogando su quella bambola nervosismo e timidezza per lunghi minuti.
Il direttore arriva, inizia una lunga riunione per definire i termini della nostra collaborazione e, una volta finito, notiamo che K si è addormentata su uno dei divani del Centro. La svegliamo per salutarla, dirle che passeremo a salutarla spesso, che alla fine del percorso potrà tornare da noi. Lei nasconde il volto tra le braccia, lascia cadere una lacrima e stringe forte al petto la sua Barbie.